La scorsa settimana è morto Ngugi Wa Thiongò, romanziere keniota a cui dobbiamo “Decolonizzare la mente”, un breve saggio decisivo per comprendere tante cose che accadono tra il nord e il sud del mondo.
Di questo autore avevo letto “Senza ombra di dubbio”, un racconto profondo ed esilarante pubblicato anni fa sulla rivista “Lo straniero”, diretta da Goffredo Fofi.
In quelle pagine autobiografiche Ngugi narra che lui e suo fratello, da bambini, un giorno ipotizzarono che, se le ombre dei neri sono nere, forse le ombre dei bianchi sono bianche. Poiché di bianchi non ce n’erano nel loro villaggio, i due fratelli decidono di intraprendere un viaggio verso un villaggio più grande, in cui sperano di incontrare dei bianchi per verificare la loro intuizione.
In un momento in cui nel paese di Giove, dove insegnavo, c’erano stati segni di intolleranza verso un gruppo di rifugiati, appena giunti dopo una dura attraversata del Mediterraneo, lessi con le bambine e bambini di quinta elementare quel racconto, che li colpì così tanto che decidemmo di metterlo in scena.
Nel gioco di specchi che permette il teatro, abbiamo fatto nostra la delusione di Ngugi che, scoprendo che anche i bianchi hanno ombre nere, si domanda a un certo punto del racconto come sia possibile che la straordinaria scoperta che sia bianchi che neri producono ombre dello stesso colore, non abbia indotto gli abitanti del nostro pianeta a far proprio il principio elementare di uguaglianza tra esseri umani, abbandonando una volta per tutte le tante diffidenze reciproche e discriminazioni, incomprensibili a lui e a suo fratello.
SCRIVERE NELLA PROPRIA LINGUA MATERNA COME DANTE
Il racconto era così acuto, divertente e suggestivo, che mi sono incuriosito del suo autore.
Ho scoperto così che dopo avere scritto i primi romanzi in inglese, Ngugi Wa Thiongò ha deciso di tornare alla sua lingua madre scrivendo in gikuyu. A chi lo criticava sostenendo che la sua lingua era intesa da pochi, rispondeva citando Dante, a cui venne rimproverato di rinunciare all’immortalità scrivendo la sua Commedia in italiano. “La lingua gikuyu per me è come latte materno di cui non posso fare a meno”.
Ora, dato che apparteneva a una cultura in cui era ancora viva la tradizione orale, sapeva bene che la lingua, prima di essere significato è suono, melodia, ritmo, musica. Arrivò così a ipotizzare in un suo testo l’esistenza di una sorta di “oratura”, capace di intrecciare oralità e letteratura. Decise dunque di scrivere in gikuyu il romanzo “Matigari ma Njiruungi”, in cui narra le gesta di un eroe picaresco e anarchico, che viaggia avventurosamente per il suo paese con grande libertà.
Il libro ebbe una rapida diffusione in Kenia, perché rinasceva di continuo in forma orale, narrato nei villaggi, tanto da raggiungere una grande quantità di abitanti di una nazione che allora era ancora popolata in gran parte da analfabeti, trasformandosi in una moderna epopea popolare.
Le gesta di questo eroe trasgressivo cominciarono a passare rapidamente di bocca in bocca, rendendo così vivo e presente il ribelle Matigari da mettere in allarme le autorità.
Il successo fu tale che giudici e polizia, al servizio dell’autocrate presidente Keniatta, emanarono un mandato di cattura contro il protagonista immaginato da Ngugi Wa Thiongò. Venne così a crearsi la situazione comica e surreale di un mandato di cattura spiccato contro l’eroe di un romanzo.
Matigari era così vivo, presente e sfuggente, da far pensare a qualcuno che lo si potesse arrestare, come se in Italia qualcuno si fosse presa la briga di far incarcerare Pinocchio o Gian Burrasca.
Racconto questo episodio esilarante a bambine e bambini, perché rende bene l’eterno scontro tra l’ottusità idiota di ogni potere autoritario e le potenzialità eversive della cultura viva e dell’arte.
Ancora oggi, quando mi capita di parlare a colleghe e colleghi insegnanti o a giovani che studiano per diventare maestre o maestri, mi piace ricordare la grottesca vicenda keniota del mandato di cattura contro Matigari, insieme alle incredibili censure messe in atto in Argentina al tempo dei generali golpisti, che gettarono dagli aerei oltre diecimila giovani ribelli, desaparecidos nelle acque dell’oceano alla fine degli anni Settanta del secolo scorso.
La giunta militare comandata da Jorge Rafael Videla, oltre a chiudere le facoltà di Filosofia, Sociologia e Psicologia, si prese la briga di censurare anche i testi scientifici, espungendo dai libri di Fisica i vettori perché dotati di direzione e, dunque, potenzialmente sovversivi.
Cercare di censurare, osteggiare e reprimere l’arte, la cultura e la scienza così come attaccare le università è un atteggiamento del potere autoritario, che sembra tristemente tornato di attualità anche in paesi che si dicono democratici…