Inauguriamo il decennio da dedicare alla cura e alla parsimonia

di Franco Lorenzoni

7 settembre 2022

E se la crisi energetica che tanto spaventa e l’obbligo a ridurre i consumi aprisse nuovi orizzonti al nostro vivere e consumare e, dunque, all’educare e al nostro quotidiano fare scuola?

Riflettiamoci, perché talvolta nella storia i tempi di crisi hanno aperto nuove prospettive e inediti orizzonti di pensiero e credo che noi, che abbiamo scelto il mestiere dell’educare, non dovremmo tirarci indietro.

Per affrontare la peggiore crisi che sta vivendo l’Europa e il nostro paese dopo due anni e mezzo di pandemia e sei mesi di guerra in Europa provocata dall’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa, dobbiamo riuscire a mettere la scuola, la ricerca e la formazione al centro dell’attenzione sociale (e di questa campagna elettorale tanto urlata quanto povera di lungimiranza).

Per affrontare la crisi energetica, le conseguenze del surriscaldamento globale e il crescente impoverimento di milioni di famiglie che portano a una crescita esponenziale di disuguaglianze e discriminazioni abbiamo bisogno di più scienza, più cultura e più ricerca.

Durante la pandemia i mesi di non scuola hanno rappresentato un brusco salto indietro dei faticosi processi di inclusione e la cosa più grave è che ad essere colpite sono state le fasce più fragili: ragazze e ragazzi portatori di disabilità, alunni con background migratorio e figli di famiglie che vivono in condizioni di povertà assoluta, in vertiginoso aumento.

Le conseguenze traumatiche di quello straordinario terremoto emotivo, a cui si sono aggiunte le angosce generate da una guerra vicina, hanno portato a un aumento delle sofferenze di ragazze e ragazzi di cui si stenta ad avere piena cognizione.

Capire è cambiare

Tre anni fa, venerdì 27 settembre 2019, l’anno scolastico fu inaugurato da grandi manifestazioni delle ragazze e ragazzi della generazione di Greta.

Il tratto più interessante di quelle manifestazioni, suscitate dalla caparbia ribellione solitaria della quindicenne svedese, stava nella rivendicazione di uno studio più attento e conseguente degli equilibri del pianeta attraverso un inedito ritorno alla nascita delle scuole nel Mediterraneo greco 25 secoli fa. In quelle prime scuole, in cui cominciarono a prendere forma lo studio della natura e la filosofia, non ci si limitava a cercare di conoscere la natura e l’animo umano, ma si praticavano esercizi tesi a trasformare pensieri e comportamenti di chi si metteva in ricerca, in una sfida coerente e tenace a superare se stessi.

Capire stava nel cambiare, esattamente come da due anni sostiene e pretende Greta Thunberg, che giustificò il suo primo school strike dell’agosto di quattro anni fa sostenendo che, se la società e la politica si rifiutano di prendere in considerazione i risultati di ciò che la scienza e la scuola insegna, a cosa serve studiare?

Se capire è cambiare, se non si cambia vuol dire che non si è capito.

Proviamo a partire da qui per provare ragionare su come reagire ai grandi sommovimenti provocati dal surriscaldamento globale, dalla pandemia, dall’aggressione armata contro l’Ucraina e dalla conseguente crisi energetica.

Il mondo è uno solo e tutto unito e, per intenderlo, dobbiamo rovesciare un bel po’ di cose. Per esempio ricordarci che non andiamo a scuola per apprendere le discipline, ma studiamo le discipline per cercare di comprendere qualcosa di più del mondo, degli altri e di noi stessi, perché a “scuola si fatica meno perché si pensa insieme”, come ha detto Ilja a 13 anni, uscendo da mesi di DAD.

Proviamo a declinare questo pensare insieme nel presente nei molteplici aspetti che evoca.

Per ragionare sulla pandemia e sull’aumento spropositato delle spese per gli armamenti che sono raddoppiate dall’inizio del nuovo millennio abbiamo bisogno in primo luogo di matematica e statistica, ma anche di geografia e scienze per inseguire gli spostamenti dell’epidemia, comprendere il proliferare di catastrofi “non naturali” dovute al surriscaldamento globale e le possibili conseguenze di disastri nucleari.

Abbiamo bisogno di letteratura e storia per comprendere cosa comporta convivere a lungo con una pandemia o con la guerra, perché ci sono narrazioni di peste e di guerre che ci fanno comprendere alcune dinamiche e possibili reazioni nei nostri comportamenti a cui vale la pena di tornare, intrecciando le nostre memorie su come abbiamo vissuto i mesi della pandemia con le memorie di chi è profugo ed è approdato tra noi per ragioni di guerra o di povertà dovute ai cambiamenti climatici, confrontandole con altre memorie del passato.

Qui si pongono questioni di grande delicatezza perché, con sensibilità da rabdomanti, dovremmo provare a portare in superficie le fonti vitali alle quali bambine e bambini, ragazze e ragazzi, hanno attinto nei mesi di reclusione domestica, dando ascolto e valore a esperienze del tutto inedite nelle relazioni familiari e nella frequentazione assidua della rete e di musica e di audiovisivi di cui s’è fatta indigestione, che, pur tra mille contraddizioni, offrono vaste praterie di apprendimenti informali a coloro che hanno o sono capaci di costruirsi bussole per i loro viaggi di conoscenza.

Ma per far sì che emozioni e privazioni così profonde e contraddittorie non restino sepolte e arrivino a prendere forma e corpo, dovremmo offrire la possibilità di guardarle attraverso lo specchio dello scudo di Perseo, evocato da Italo Calvino nella sua lezione americana dedicata alla leggerezza. Per non restare paralizzati dallo sguardo pietrificante di Medusa, infatti, come dal virus che ha bloccato per molto tempo ogni cosa e dalle minacce di una guerra vicina che moltiplica ansie ed angosce tra i più giovani, dobbiamo imparare a guardare in modo indiretto e sghembo. E’ a questo che serve la cultura e dunque la scuola: a osservare ciò che accade fuori e dentro di noi rimbalzando su opere d’arte o di scienza capaci di rendere la scena intima e la scena planetaria meno oscura, meno opaca.

E allora si tratta di confrontare ciò che stiamo vivendo nell’intero pianeta oggi con altre pandemie e altre guerre sciagurate, approfondendo la conoscenza, ad esempio, di come si diffuse l’influenza spagnola esattamente un secolo fa che, con i suoi 50 milioni di morti, doppiò le vittime della prima guerra mondiale.

Nei libri di storia ben poco spazio è dato all’antropologia medica e alle conseguenze di lungo periodo di invasioni e di guerre di conquista, che grande peso hanno sempre avuto nel provocare crisi di imperi e stermini di intere popolazioni, decimate dalle malattie importate dai bianchi, ad esempio, al tempo della conquista del continente americano.

Per vivere il presente come storia e intendere cosa ci accade intorno con cognizione di causa, abbiamo bisogno di entrare nella complessità praticando il dialogo, intrecciando diversi saperi e coltivando la nostra immaginazione con più dedizione e cura di quanto siamo stati capaci di fare finora, perché un gigantesco compito di realtà coinvolgerà necessariamente tutti noi fin da ora, riprendendo un anno scolastico che si inaugura nei giorni in cui vengono proposte misure di contenimento energetico.

Non potremmo ad esempio coinvolgere studentesse e studenti in una vasta ricerca sul tema della parsimonia e del risparmio come possibilità per ripensare le nostre scale di valori e di consumi?

Dalle grandi crisi si esce trasformati, ma il modo in cui ci si trasforma dipende dalle forze in campo e dalle idee che circolano. Ecco allora che il ruolo della scuola, della cultura e della costruzione e diffusione del sapere assume un’importanza primaria e noi, da educatrici ed educatori, dovremmo esplorare ed esercitarci nel campo del possibile col massimo di lungimiranza e attenzione e cautela, perché gli anni Trenta partorirono il new deal, ma anche il nazismo.

Il difficile cammino della conversione ecologica

Nessun problema del domani può essere affrontato senza pensare al dopodomani e ai decenni futuri. E poiché altre crisi ancor più gravi ci aspettano, a partire da quella che sta provocando il surriscaldamento globale, le cui conseguenze sono chiare ai più sensibili dei ragazzi che hanno meno di vent’anni, ma stentano a fare breccia in noi adulti e anziani, per attrezzarci a farvi fronte dovremmo immaginare e dar vita a un decennio della cura e della parsimonia, sull’orma degli obiettivi imprescindibili individuati dalle Nazioni Unite.

Cura dei territori che abitiamo, con la coscienza che il pianeta Terra è uno solo, ogni cosa è interconnessa e nessun confine può proteggerci da ciò che sta già accadendo in altri paesi e in altri continenti. Cura delle relazioni reciproche, alla ricerca di un’arte del convivere all’altezza delle sfide che porranno ai nostri paesi e città nuove migrazioni e spostamenti massicci di popolazioni, inevitabili nei prossimi decenni. Cura dei contesti educativi, perché a tutti sia data la possibilità di acquisire le conoscenze necessarie per operare scelte complesse e difficili, che mettono in gioco consuetudini consolidate.

Ma per arrivare a costruire collettivamente una cultura capace di mettere al centro la cura e un mutamento significativo dei nostri consumi e comportamenti, dobbiamo essere in grado di elaborare dei veri e propri curricoli dell’incertezza e curricoli del rammendo, perché tanti sono i fili da riannodare. Curricoli che sappiano mettere al centro le tante domande legittime che riguardano il nostro futuro, con la consapevolezza che le risposte le potremo dare solo mettendoci in ricerca e superando i tanti muri che avviliscono le nostre scuole e i nostri pensieri.

Trent’anni fa Alexander Langer, uno dei rari politici del nostro paese capace di lungimiranza, invocò l’urgenza di una radicale conversione ecologica per salvare la convivenza e gli equilibri del pianeta. La parola conversione univa, nel suo intento, le necessarie trasformazioni agricole, industriali, abitative e di relazioni tra stati con una capacità di rivedere priorità e consumi, che riguardano le nostre scelte individuali.

Torniamo dunque a quel “capire è cambiare”, che costituisce la principale sfida per chi voglia educare al futuro assumendosi le proprie responsabilità.

Per assumere la portata radicale della sua funzione sociale, spesso la pedagogia ha avuto bisogno di sguardi che venivano da altri mondi. È stato così con Maria Montessori, Ovide Decroly e Janus Korczak, tre medici che l’hanno profondamente messa in discussione all’inizio del novecento, individuando strumenti per la crescita e la difesa della dignità dei più fragili. Oggi sappiamo che è in quella sfida che si sperimentano le proposte migliori per la scuola di tutti, come ci ricordava Andrea Canevaro, di cui sentiamo forte la mancanza.

Il nostro paese è ricco di esperienze puntuali che si sono forgiate nel contrasto alle discriminazioni. E’ giunto il tempo di dargli il più grande spazio e respiro possibile, avendo il coraggio di uscire dalla scuola.

Fare scuola, fare la scuola

In molti sostengono, dati alla mano, che per contrastare la dispersione scolastica, prendersi cura delle tante fragilità e affrontare la crescente povertà educativa, in molte realtà la scuola, da sola, non ce la fa.

Ben vengano allora le collaborazioni più varie e aperte tra la scuola pubblica e il complesso e variegato mondo del civismo attivo, che da anni sperimenta in diversi territori forme di sostegno alle povertà educative e tenta di offrire seconde possibilità alle troppe ragazze e ragazzi che la scuola perde per strada. Il problema è che per promuovere “patti educativi di comunità” la scuola deve esserne protagonista operando trasformazioni profonde al suo interno. Altrimenti si rischia di delegare affidando al privato, sia pure sociale, una delle funzioni centrali della scuola, che in democrazia ha il compito costituzionale di garantire uguali opportunità a tutti.

In questo tempo di crisi e di grandi incertezze il nostro mestiere non può non confrontarsi con territori di intervento più ampi. Come recita il titolo di un importante libro di Philippe Meirieu, si tratta di fare scuola e, al tempo stesso, fare la scuola.

Pensarsi docenti non di una disciplina o di una classe, ma dell’intera scuola e della comunità in cui si opera non è facile. Eppure ciascuno di noi, quando organizza il suo lavoro didattico e insegna a un gruppo di bambini o ragazzi, sta dando vita più o meno consapevolmente a un’idea di società. Idea di società che affonda le sue radici nella visione che abbiamo delle relazioni reciproche e della comunità che stiamo costruendo, a partire dal nostro concreto operare. Solo la piena comprensione del ruolo politico dell’educare, nel senso più vasto della parola, offre al nostro difficile mestiere quel respiro capace di renderci protagonisti della sfida tra istruzione e distruzione, che riguarda ogni segmento della nostra frammentata società e segnerà profondamente i prossimi anni.

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